Il portiere è un mestiere per uomini forti. Bisogna avere un carattere sicuro, un’abitudine non annoiata ai propri pensieri. Bisogna saper guidare chi gioca davanti a te, intimorire chi tira verso la tua porta. Perché il calcio, gioco fatto spesso di poeti e di prosatori, ha anche bisogno di filosofi. Di persone cioè capaci di riconoscere che il loro dovere è essere infallibili e allo stesso tempo capaci di dare una risposta alla coscienza nel non poterlo essere sempre.
Dino Zoff appartiene a quel tipo di italiani di cui speriamo non si perda mai lo stampo. Se parla di calcio, ricorda tutto e non finirebbe mai, e si commuove quando pensa a due come lui, Bearzot e Scirea. Gente seria, di poche parole, con al centro del cervello e del cuore, quella parola, «responsabilità». Zoff disse una volta a un suo giocatore che diceva di essere stanco: «Tu ti senti stanco? Dici che non ce la fai più? Pensa ai militari che tornavano dalla Russia a piedi per migliaia di chilometri, nel fango e nella neve. Sai perché ce la facevano? Perché avevano la testa e il coraggio, le due cose che servono sempre nella vita».
Albertosi è stato un portiere guascone, un tipo particolare. Estroso, poco avvezzo alla disciplina, propenso a tuffarsi ad angelo e a far godere il pubblico. A fine carriera aveva dei baffi malandrini, da protagonista di uno spaghetti western. È stato un «irregolare» del calcio, il contrario della sobrietà austera dei due portieri con i quali è stato in concorrenza: Giuliano Sarti e Dino Zoff. Comunque, tutti e tre erano dei campioni. Ed era un bel vedere, come decidere se parteggiare per i Beatles o per i Rolling Stones. In loro c’era talento puro e tanta fatica, nell’Italia del dopoguerra prima e del boom poi.